Violenza economica, la storia di E.
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27 Dicembre 2018di Novella De Luca,
La Repubblica 24 Novembre 2018
«Nessuno sa cosa Andrea ricordi di quella notte. Aveva soltanto due anni e mezzo quando sua madre, mia sorella, fu uccisa dal marito». Era il 2013. D’inverno. Il bimbo dormiva accanto, nella sua cameretta. «Impossibile che non abbia sentito. Però se lo guardo oggi, un bambino sereno, forte, penso che forse noi, mia moglie mia figlia, io, tutti “vittime collaterali” di quel femminicidio, abbiamo fatto un buon lavoro. Invece sono cinque anni che lotto per poter diventare suo padre, per adottarlo. Perché nel deserto che segue a queste stragi, noi parenti degli orfani, oltre al dolore scopriamo di avere un altro nemico: la burocrazia».
Giovanni è un uomo pacato, colto, abituato a parlare. Lavora nel sociale, con i bambini malati, abita al Nord, per proteggere suo nipote chiede di cambiare nomi e carte geografiche. «Oggi che finalmente Andrea è affidato a me, e il prossimo passo sarà l’adozione, non vorrei compromettere tutto. Ma sapete quanto mi è costato fino a ora tra avvocati, ricorsi, psicoterapie e periti poter restituire un futuro a mio nipote? Per diventarne il tutore legale? Quasi trentamila euro. Eppure era naturale fin dall’inizio che noi diventassimo la sua famiglia. Se la Fondazione Pangea non avesse lanciato per noi una raccolta di fondi oggi saremmo pieni di debiti, ridotti in povertà. Dallo Stato nemmeno un euro. Nulla. E’ il paradosso amaro di chi si prende cura di un orfano di femminicidio”.
Fa fatica a parlare di sua sorella, Marinella, 40 anni, assassinata a coltellate dal marito in una notte di cinque anni fa. Giovanni apprende la notizia in un’alba fredda, mentre è in viaggio per lavoro. «No, non c’erano state avvisaglie, o forse non le avevamo sapute leggere. Nella catastrofe emotiva di quei giorni il nostro unico e primo pensiero è stato quello di prenderci cura di Andrea. Come stava, cosa aveva visto, come proteggerlo. Avevamo chiesto, immediatamente, il suo affidamento, ma invece nella prima fase, pensando che fossimo troppo coinvolti – c’era un funerale da fare, un processo da imbastire – Andrea era stato “appoggiato” presso degli zii paterni. Ci sono voluti sei mesi perché potessimo accoglierlo nella nostra casa». Ma è soltanto l’inizio di un’odissea legale e burocratica. Da affrontare con la fatica e la solitudine di chi è stato già spezzato da un lutto feroce. «Mia sorella era stata uccisa, il marito in carcere, Andrea in poche ore era rimasto senza madre, senza padre, senza casa e affidato, come accade in questi casi, a un soggetto terzo, il sindaco. Per poterne diventare genitore affidatario ho dovuto affrontare cinque anni di processi. Pagando avvocati e periti».
Non perché la famiglia di Giovanni non andasse bene. Anzi. «Andrea – racconta Giovanni – è un bambino meraviglioso, coraggioso, bravo a scuola, è cresciuto con mia figlia, ha saputo la sua storia fin da piccolo, è stato seguito da psicologi bravissimi. Lo hanno dimostrato tutte le perizie. Ma semplicemente perché la Giustizia italiana funziona così, tra istituzioni che non si parlano e giudici che magari non leggono le carte. E allora può accadere che nella frammentazione delle competenze si debba ricominciare daccapo. Nuovi processi, nuove perizie, altri soldi». Nella totale assenza dello Stato. «Nessun risarcimento, nessun sostegno, anzi mi chiedo dove siano andati a finire i fondi per gli orfani dei femminicidi».
Una tela di ragno. Nella quale si trovano impigliati quasi tutti i parenti di questi orfani speciali. Smarriti dentro una burocrazia ostile che sembra aggiungere beffa al dolore. «Questi bambini sono devastati, hanno bisogno di aiuti enormi. Di competenze. Di sostegni economici. Di cure mediche. Oggi Andrea sta bene perché grazie ai fondi raccolti dalla Fondazione Pangea noi siano riusciti a lavorare su di lui, su di noi. Ma senza tutto questo le famiglie, soprattutto le più fragili, soccombono. E il lutto si aggiunge al lutto».